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Un paese in guerra

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Un paese in guerra. La comunità di Crevacuore tra fascismo, Resistenza, dopoguerra

di Alessandro Orsi, II edizione, 2001, pp. VI, 285

Riedizione ampliata del volume già edito nel 1994.
La vicenda, da cui prende le mosse il libro e con cui si chiude, l’uccisione a Crevacuore del sindaco, partigiano comunista, da parte della donna-bambina, ha indubbiamente il fascino del dramma, ma non è l’asse del libro. È solo il filo attorno a cui si intreccia e si annoda la vicenda di tante altre vite, di altri drammi, di altre storie di uomini e donne, di giovani e meno giovani, di partigiani e civili, di comunisti e fascisti che devono fare i conti con la rottura delle regole della convivenza e l’emergere di una violenza spietata, apparentemente gratuita e azzerante.

Esaurito

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Descrizione

La storia che questo libro racconta va diritta al cuore di un problema storiografico attorno a cui si è sviluppata la discussione negli ultimi anni. Un problema storiografico, ma forse sarebbe meglio dire un nodo politico, civile e storico insieme, che ha trovato la sua espressione più elaborata nel volume che Claudio Pavone ha pubblicato nel 1991. Il volume raccoglie il lavoro e le riflessioni di un decennio su che cosa è stata e che cosa ha significato per gli italiani che l’hanno fatta, ma anche per quelli che l’hanno subita, l’esperienza drammatica dell’ultima fase della guerra nelle terre occupate dai nazifascisti. I punti cruciali di quella riflessione (le tre guerre, civile, patriottica, di classe e l’uso della violenza, nazista, fascista e partigiana) sono ben presenti in questo libro che Alessandro Orsi ha dedicato al suo paese di origine.
È un libro difficile da catalogare: c’è troppo lavoro di ricerca per essere classificato come un romanzo, c’è troppa “invenzione” di linguaggio e di forme per essere un saggio storico. È una contaminazione, a mio parere felice, tra i due piani, che gli consente di dire ciò che non poteva essere detto né con la freddezza della ricerca scientifica, né con la leggerezza della sola invenzione. Ci sono nervi ancora scoperti che bruciano; ci sono lacerazioni che non sopporterebbero un approccio superficiale. E tuttavia le cose sono chiamate con il loro nome a volte con una spietata precisione, a volte con una grande attenzione alle sfumature perché Alessandro Orsi si rivolge a un pubblico preciso: nelle prime file del suo uditorio metaforico ci stanno i suoi compaesani. In effetti, il personaggio principale della storia, anzi delle storie che ci racconta è la comunità. Detto così potrebbe sembrare un’operazione tutta di testa, astratta: è noto che la comunità è un concetto polivalente, adatto e spesso adattato a significati plurimi e perciò impreciso e sfuggente. Non è così perché l’autore ha avuto ed ha ancora con quella comunità un rapporto profondo di empatia che sola può consentire di coglierne le voci, le confidenze, le articolazioni e il senso di comportamenti apparentemente contraddittori. Il risultato è notevole perché consente di misurare in termini concreti la profondità, la latitudine, la capacità euristica di alcuni concetti di cui si diceva sopra: tra questi è indubbio che quello di guerra civile trova qui una verifica per certi versi quasi sovrastante gli altri.
Dopo l’8 settembre 1943 la contrapposizione amico-nemico di cui si alimenta la spirale dello scontro dentro la comunità esplode per vie apparentemente misteriose, che fanno riemergere il ricordo di conflitti radicali di nuovo vivi sotto la polvere della storia. La vicenda da cui prende le mosse il libro e con cui si chiude, l’uccisione da parte della donna-bambina del sindaco, partigiano comunista, ha indubbiamente il fascino del dramma, ma non è l’asse del libro. È solo il filo attorno a cui si intreccia e si annoda la vicenda di tante altre vite, di altri drammi, di altre storie di uomini e donne, di giovani e meno giovani, di partigiani e civili, di comunisti e fascisti che devono fare i conti con la rottura delle regole della convivenza e l’emergere di una violenza spietata, apparentemente gratuita e azzerante.

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VI, 285

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